Arte contemporanea: Chagall e L’occhio della pittura di Tadini

Tadini – Marc Chagall
Arte contemporanea – Chagall e L’occhio della pittura di Tadini. Capitolo terzo del saggio di critica d’arte di Emilio Tadini sull’opera Autoritratto con sette dita di Marc Chagall ->Leggi a questo LINK gli altri capitoli. Metamorfosi su metamorfosi, nella storia dell’arte. Ogni idea, anche la più evanescente, portata alla sua incarnazione…
Forse la poesia fatta di parole è più libera. E quella libertà è il suo onore. Forse la pittura è più “occupata” con cose accidentali – con cose come l’attrito che frena quando si vorrebbe prendere velocità, per esempio, con cose come la fatica muscolare: forse la pittura ha più impegni terra terra. Ma anche tutti quegli impegni sono il suo onore. Questo, ovviamente, non vuol dire che il lavoro della poesia possa essere in assoluto più facile, meno gravoso di quello della pittura.
È come se, nella pittura, l’altro mondo fosse costretto a farsi carne, a farsi “cosa singolare”, ad abitare, costantemente, presso di noi. Rappresentato. E cioè portato nella presenza, addirittura “fatto presente”.
Forse questo spiega la furia del pensiero iconoclasta, la sua preoccupazione. Il fatto è che il pensiero iconoclasta doveva giudicare le figure come una insidia micidiale diretta contro l’esistenza stessa di un’idea di trascendenza. Una specie di tranquilla, inoppugnabile smentita…
I colori di del quadro Autoritratto con sette dita di Chagall ricordano i colori di Cézanne, i colori del cubismo. La stoffa dei pantaloni, della giacca, trascolora, cambia colore.
I colori sono usati in modo da enfatizzare l’azione delle luci e delle ombre – di questa dialettica fondamentale per lo sguardo, per la pittura – nel determinare i volumi.
In questo modo Chagall ci mostra anche quanto sia rilevante l’azione della luce nel catalizzare quello che potremmo chiamare il composto-colore.
In questo modo Chagall esalta l’occhio della pittura – con la sua capacità di evocare potentemente la presenza di una serie di colori puri là dove l’occhio normale vede soltanto una successione di sfumature quasi impercettibili. L’occhio dotato di potenza non complica il veduto, lo semplifica. Come se “isolasse” il valore.
È proprio sulla debolezza della propria percezione che l’occhio “normale” fonda il concetto di “impercettibilità”. Concetto che, a volte, finisce per acquistare una autorità che non saremmo certo pronti a concedergli se ci ricordassimo delle sue origini.
Molto spesso si dà il caso che l’occhio normale sia portato a vedere ombre, segreti misteri là dove l’occhio dell’artista vede cose salde, verità manifeste ed evidenze.
L’occhio normale è “diffidente” perché ha poca fiducia in se stesso.
Con quei suoi colori, d’altra parte, Marc Chagall sembra attaccare radicalmente la consistenza della cosa-(da vedere)-in-sé.
Vengono in mente quelle ombre – nella luce inaudita delle eclissi – che corrono, danzando, sui prati estesi, sui declivi, e li stravolgono, li eccitano, ne disfano la figura. In una inquietante mescolanza di visibile conosciuto e di visibile ignoto.
Tutto è scompaginato in questo dipinto. È la memoria a essere scompaginata – o è la memoria che scompagina?
Memoria come volontà. Il ricordare come atto di volontà creatrice, si potrebbe dire.
Una memoria che utilizza le rovine del passato come puro e semplice materiale da costruzione. Per tirar su case nuove, nuovi templi e tempietti, per pavimentare strade che portano altrove…
Si danno nel sogno – nel linguaggio del sogno – alterazioni, deformazioni. Quella del sogno e una figurazione scompaginata, squinternata – in rapporto alla nostra normale logica visiva.
Spostamenti – metafore – nel sogno. Condensazioni – metonimie. Una cosa per un’altra, una parte per il tutto… Rovine riutilizzate. Redente…
Forse nel sogno non è soltanto la resistenza opposta dalla censura a far sì che si debbano cambiare le carte in tavola. È anche, forse soprattutto, l’occhio, in se stesso, del sogno. La sua natura sovversiva.
Nessuna mano dipinge la scena del sogno. E’ come se a dipingerla fosse l’occhio del sogno – lo stesso occhio che sta guardandola.
Forse la parola “sogno”, quando la usiamo metaforicamente, deriva la sua straordinaria potenza proprio dal ricordo di quella identità che nel sogno vero e proprio – sognato di notte da un dormiente – si stabilisce tra chi crea la visione del sogno e chi la guarda. Un “dire” che è in assoluto un “fare”. Senza mari in mezzo.
Che cos’è che cambia le carte in tavola in questo dipinto – così come in tanti altri dipinti di quegli anni? La memoria, certo – come stimolo a guardare l’indiscutibile presenza del non più visibile. La memoria come stimolo a frequentarlo comunque, il non visibile: per averne memoria e per farne figure.
E poi quella specie di fantasticare felice, o disperato, la feroce illusione di quella scelta di totale libertà… E in progressione: da un gesto all’altro, da un pittore all’altro, da un movimento all’altro, da una scuola all’altra…
È come se, per l’occhio di questa pittura, ogni cosa si facesse davvero visibile soltanto nel momento in cui appare e si mostra sulla superficie del dipinto.
È come se il modello di realtà a cui il pittore guarda – ma senza alzare gli occhi dal dipinto – non fosse una figura del reale definita dalla sua consistenza e da certe dimensioni, ma tutto uno sciame, in movimento, di fatti, di oggetti, e di ricordi, di pensieri, di sentimenti, di stati d’animo… Più qualche oscuro presagio, probabilmente.
Frammenti… Non tenuti insieme da qualche forza che li attragga, ancora, verso il centro. Accomunati, paradossalmente, dalla forza di una “critica”.
Nessuna censura, a opporre qualche resistenza – in questa pittura?
Forse qualcosa trattiene il pittore dal mostrare puramente e semplicemente, in quelle costellazioni di frammenti, la figura inequivocabile di un mondo che non sta insieme. Forse qualcosa lo costringe ad usare soltanto una metafora.
Forse qualcosa costringe il pittore a voltare le spalle alla luce abbagliante del Niente che sta sorgendo. La vede solo riflessa, quella luce: sul mondo che ha davanti. Vede soprattutto l’immensa ombra portata. De Chirico ha cercato di dipingerla, quell’ombra.
Forse è come se Chagall “si consolasse” con l’intelligenza della fiaba. Con l’allegria della fiaba.
Una specie di geroglifico immenso… Tutta questione di ermeneutica? Di qualche ermeneutica letteralmente disperata e proprio per questo molto efficiente?
Intanto, negli ultimi decenni del XIX secolo, i pittori “accademici” dipingono soprattutto consistenze. Dipingono quello che, secondo loro e la loro cultura, è il consistere supremo dell’esistenza: nella Storia.
Cercano ancora, i vecchi pittori, di far entrare e di contenere tutto il tempo della cronologia e tutto lo spazio nella prospettiva.
Questo dipinto di Chagall che stiamo guardando rappresenta il pittore – il pittore che lo ha dipinto – mentre ha a che fare, nel dipinto, con un proprio quadro. Così, insomma, il “soggetto” sembra proprio essere la pittura.
Giocando appena un po’ sul senso della parola “soggetto”, potremmo dire che qui è davvero la pittura a dire, comunque, la parola “io”. Non il “modello”. E neanche l’autore.

Chagall Autoritratto con sette dita, dettaglio della tavolozza
I colori che posano, dipinti, sulla tavolozza dipinta, sono gli stessi colori con cui è dipinto il quadro “vero”.
Un effetto di verità dovrebbe essere prodotto, sul dipinto in generale, dalla “finzione” che si ostenta nella quadro posto sul cavalletto. In realtà, è come se la forza fantastica che si irradia dal piccolo quadro posto sul cavalletto disponesse di tutta la scena.
Simile a un altro quadro, si apre, in alto a sinistra, una finestra. È aperta su Parigi. Si vedono la Tour Eiffel, case, un’automobile, passanti.

Chagall Autoritratto con sette dita, dettaglio della Tour Eiffel
Si vede anche un omino che si è gettato dall’alto della Tour Eiffel, appeso a un paracadute. Vuole anche lui. In quegli anni un tale si buttò davvero dall’alto della Tour Eiffel, affidandosi a un paio di ali di sua invenzione. Ma quel marchingegno – a metà fra tecnica e stregoneria – non bastò a farlo planare dolcemente. Cadde a piombo e si sfracello – povero Icaro da quattro soldi, povero martire della Tecnica… C’è un documentario cinematografico – muto, naturalmente. È vagamente ridicolo, morte e tutto.
Evidentemente, allora, per tenere in aria un corpo pesante, la tecnica più sicura era ancora quella della pittura.
La Tecnica come braccio secolare dell’immaginario… Ne abbiamo parlato. Ma bisogna pensarci. Altrimenti si rischia che davvero la Tecnica disponga interamente di noi, procedendo secondo quella che potremmo chiamare la sua propria fatalità.
Forse anche da questo rapporto – non detto, addirittura rimosso – della Tecnica con l’immaginario dipende il fascino che la Tecnica esercita su di noi. Un fascino tutt’altro che freddo – come potremmo essere indotti a pensare.
Forse è questo che ci rende così vulnerabili di fronte al potere – all’onnipotenza – della Tecnica. Forse è questo che rende la Tecnica tanto irresistibile.
La vecchia Russia contadina nel quadro e nel “fumetto”. E Parigi, la grande metropoli, di là dalla finestra. Il pittore, nel dipinto, giganteggia, in mezzo al suo studio, tra le immagini della memoria e quelle dell’attualità. Quali sono le più favolose? O la fiaba comunque è una sola?
In alto, sotto il bordo del quadro, sono scritte in un ebraico contaminato dal russo le due parole “Russia” e “Parigi”. Una specie di voglia ingenua di dire tutto, di dire l’evidenza… Che è sintomo, comunque, di grandezza.

Chagall Autoritratto con sette dita, dettaglio della testa del pittore
Il corpo del pittore è costruito come una figura da pittore cubista. Un alternarsi di parte spigolose e di parti tondeggianti. Una struttura più che solida e insieme sgangherata, irrimediabilmente precaria. Squilibrata.
È come se in questo trionfo della libera invenzione si facesse sentire, anche se molto da lontano, una certa ansia.
Saranno al loro posto tutti i pezzi di questa anatomia – la spalla, il gomito, la coscia? Quale altro disordine imminente potrebbe prepararsi ad attaccarla?
Perché la lettera del reale sembra sia diventata irriproducibile? Perché, in qualche modo, deve essere così profondamente trasformata?
È la forma stessa – addirittura la Forma – ad esigerlo? O in quella anatomia alterata si mostra una figura del desiderio, della paura, una figura di quella specie di Grande Premura che ci trasporta nel tempo?
Può darsi che la virtù della pittura contemporanea si mostri proprio nella dura fatica che essa ha dovuto e deve compiere non per avvicinarsi alla ovvietà fulminante del reale – ma per staccarsene, per allontanarsene. Un po’ come un figlio deve staccarsi e allontanarsi dalla famiglia, dai genitori.
In quell’allontanamento potrebbero darsi uno spazio e una distanza messi a disposizione dell’interpretazione, messi a disposizione della produzione di un senso.
In quell’allontanamento potrebbero darsi uno spazio e una distanza aperti davanti all’emozione – messi a disposizione dell’emozione. Perché l’emozione, con la violenza, possa farsi avanti e prendere magari il posto del senso – perché l’emozione possa offrirsi, come il senso, in garanzia…
La piccola Fabbrica dei Valori – al lavoro giorno e notte…
Quell’ansia di cui si è cercato di abbozzare una malcerta identità sembra convivere in Chagall con la pura felicità del dipingere. Ne sembra una componente indispensabile.
Che ansia in ogni fiaba. In certe fiabe c’è addirittura angoscia.
Il pittore, prima di entrare nello studio e di mettersi a dipingere si è infilato una rosa all’occhiello. Come fanno nei vecchi film gli uomini eleganti, prima di andare a una festa.
La tavolozza sembra un emblema, uno stemma. La nobiltà vera della pittura. Ma diventa anche un piccolo paesaggio fantastico. Il paesaggio della pittura – la madre, davvero, di tutti i paesaggi.
Quei mucchietti di colore sulla tavolozza prendono una forma. Cerchi, triangoli smaglianti… Vengono in mente le forme astratte usate da Kandinsky nei quadri dipinti a Parigi.
Nell’Autoritratto con sette dita, nella struttura della figura e nello spazio, non si fa sentire soltanto il cubismo di Picasso. Si fa sentire – da molto lontano, certo – anche quella violenza espressionista che aveva sfasciato la “regolarità” delle forme, la loro consueta misura. Come se, per misurare il dilatarsi e il costringersi di ogni rappresentazione del mondo sotto l’impulso violento dell’emozione, il metro canonico non bastasse più.
Non dobbiamo dare troppa fiducia alle definizioni della storia dell’arte. Cubismo, espressionismo, metafisica, futurismo, surrealismo… Le cose in realtà sono più complesse e più semplici insieme.
Scambi, mescolanze, corrispondenze, incroci, innesti, inseminazioni, contaminazioni, influssi, echi, risonanze, assonanze, armoniche sollecitate, relazioni, furti, prestiti, doni, violenze esercitate e subite, odii, rancori, affetti, amori, passioni, diatribe, patteggiamenti, accordi, incontri, scontri, ricordi, rimozioni, adesioni, ripulse, incubi, sogni…
Forse la prima cosa da decostruire è proprio il testo della storia dell’arte con tutte le sue connessioni canoniche.
Il pittore dipinto è rivolto verso chi guarda. Tiene la gamba sinistra piegata, appoggia il piede sul bordo inferiore del quadro. Che Marc Chagall si sia dipinto nell’atto di uscire dal suo quadro – sul punto di venire in mezzo a noi, così com’è, tutto sbilenco e colorato?
Fuori dal quadro, nella realtà, se ce la trovassimo di fronte in carne e ossa una figura così ci farebbe ridere o ci metterebbe paura? Che cosa diremmo – che è un mostro? E poi che voce avrebbe? Che lingua parlerebbe?
Comunque quella figura, da quando l’abbiamo vista e guardata, in qualche modo ci accompagna. Scompare e poi ritorna. Farà un po’ di strada con noi. Adesso non ci sembra strana, o estranea. È come se noi stessimo guardandola con l’occhio della pittura.