Spazio Tadini: Il ‘900 di Emilio Tadini – mostre a Milano febbraio e marzo 2018

Emilio Tadini

Emilio Tadini mostra Milano 2018

Francesco Tadini e Melina Scalise: Il ‘900 di Emilio Tadini – inaugurazione della mostra venerdì 23 febbraio 2018. Aperta al pubblico fino al 18 marzo. In occasione dei dieci anni di attività della Casa Museo Spazio Tadini (via Jommelli 24 – vedi MAPPA) un’esposizione antologica che presenta non solo i grandi trittici dell’artista – e un percorso che comprende quarant’anni di pittura con numerosi inediti –  ma il nesso inscindibile con i suoi testi letterari, poetici, saggistici, giornalistici. Parallelamente alla mostra – inserita nel palinsesto Novecento Italiano, patrocinata dal Comune di Milano e dal Municipio 3 – nelle sale della ex tipografia e atelier del pittore –  un “Omaggio a Emilio Tadini“: allestimento composto da decine di opere fotografiche dedicate alla ricerca artistica e al pensiero teorico e poetico di uno degli intellettuali che meglio hanno saputo raccontare la Milano dei decenni che vanno dalla fine degli anni ’50 all’inizio del nuovo millennio. L’Omaggio è reso dai fotografi di PhotoMilano club fotografico milanese: gruppo (con più di 2000 iscritti – > vedi sito web) nato online su Facebook – nel giugno 2017 – ma con sede e laboratorio permanente proprio a Spazio Tadini.

Milano, prima della scomparsa di Emilio Tadini nel 2002, gli ha dedicato la grande mostra di Palazzo Reale, nel 2001, curata da Silvia Pegoraro. Dal catalogo Silvana Editoriale, oltre al testo della curatrice (che abbiamo già riproposto allo studio a questo LINK) sottoponiamo un altro testo importante alla comprensione  dell’opera tadiniana: quello di Alain Jouffroy – poeta e critico d’arte francese (Parigi,  1928 – Parigi, 2015) –  intitolato:

Emilio Tadini: pittore della rivoluzione interiore contro il nichilismo planetario

Ho incontrato Emilio Tadini quarant’anni fa, poi l’ho rivisto in molte occasioni, sia a Milano che a Parigi. Provo molto rispetto e amicizia per quest’uomo, che assume il doppio ruolo di scritto­re e pittore. I rapporti che intrattengo con la sua pittura sono più precisi di quelli che ho potu­to allacciare con alcuni dei suoi scritti, ma non dimentico mai, quando vedo i suoi dipinti, che sono quelli di un uomo capace anche di creare opere con frasi e idee. Non si tratta dunque di un pittore nel senso comune del termine, che indica perlopiù artefici la cui specializzazione si limita al campo delle immagini – ovvero del visivo. Ciò che lo distingue dai “pittori” nel senso comune del termine, è il fatto che nella sua opera pittorica la “cosa mentale” permane indisso­ciabile dalle forme e dai colori.
Non c’è quindi da stupirsi del fatto che questa particolare carica mentale gli conferisca una potenza speciale, che i pittori “puri” raggiungono solo in rari casi.
Tadini dipinge e pensa ciò che dipinge, non in due momenti distinti, prima dell’azione e dopo l’azione, ma simultaneamente, in uno stesso e unico movimento, compiuto senza sforzo, con spontaneità, come se si prendesse gioco delle barriere che si sono artificialmente elevate per separare la letteratura dalla pittura e opporre, stupidamente, l’una all’altra. Ciò non toglie che pittura e letteratura continuino a essere considerate, in generale, due forme d’espressione non solo reciprocamente contraddittorie, ma addirittura antagoniste. Il che, nella più parte dei casi, è totalmente falso, illusorio e aberrante. Non si separa l’universo delle parole da quello delle immagini se non si è in mala fede, e rafforzare questa separazione contribuisce a perpetuare un equivoco che chiaramente nuoce alla creazione pittorica, poiché esclude i pittori dal dominio del pensiero nella sua interezza.
Emilio Tadini ha dovuto affrontare, per anni, questi pregiudizi antiletterari, che regnano in Occidente sin dagli anni Trenta e che predominano, particolarmente in Europa e nell’America del Nord, negli ambienti artistici, quelli della pittura astratta e informale, certo, ma anche tra gli espressionisti, come pure in quella critica che è loro affiliata e che ha come scopo reale quello di privare di contenuto e di senso la pittura in generale, dunque di de-politicizzarla, affinché il mercato dell’arte possa tanto più facilmente controllarla e asservirla.

Emilio Tadini

Emilio Tadini mostra Palazzo Reale, Oltremare, 1992, diametro 200 cm


Emilio Tadini, già da moltissimo tempo, è uno dei rari artisti ad aver vinto questi pregiudizi, in partico­lare da quando è stato riconosciuto come pittore, senza che ciò abbia potuto nuocere, nello stesso tempo, al suo prestigio di scrittore e romanziere. La potenza espressiva che sprigiona dipingendo è manifesta ed eloquente, sul piano formale come su quello cromatico. La sua ope­ra in pittura può essere studiata come un tutto autonomo, indipendente dai suoi libri, e vice­versa, benché si possano percepire i rapporti intercorrenti tra le due facce del suo lavoro. Il che non vuol dire che esistano “due” Tadini, da opporre uno all’altro, ma che l’artista è diventato uno in due, alla pari, un “altro” nel medesimo “io” o, sempre secondo una formula rimbaudia- na: come il legno è presente nel violino o l’ottone nella tromba. Si tratta, nella sua pittura, di un dialogo invisibile tra due energie convergenti, interne allo stesso cervello, che lo mantengo­no in continua tensione. Basta captare intuitivamente il senso dei dipinti per riconoscere subi­to questa incessante convergenza di energie.
Sin dal 1960, con il dipinto Saggio sul nazismo, Tadini mette in campo il suo dispositivo d’in­terrogazione e critica a livello visivo della storia europea: l’atmosfera oscura di questo dipinto, popolato di figure umane dai lunghi becchi, evoca gli inferni di Hieronymus Bosch. Nel 1965, con il suo grande dipinto La famiglia irreale d’Europa, dove tre bersagli scorrono su rotaie e dove un animale che somiglia molto a un toro capitombola verso il fondo, mentre un personag­gio dalla testa invisibile fa lo stesso, il teatro metaforico e critico che gli è proprio si mette a funzionare con chiarezza.
Nel frattempo, Tadini assiste a rappresentazioni di pièces di Brecht al Piccolo Teatro di Milano, messe in scena da Strehler, e questa approfondita conoscenza del teatro dello straniamento va a contribuire alla sua invenzione di uno straniamento pittorico estremamente originale.

James Joyce, Freud e Emilio Tadini – (la biblioteca è conservata da Francesco Tadini presso la Casa Museo)

Grande lettore di James Joyce, e di Freud, Tadini va dunque a confrontarsi con tutte le ideologie che hanno strutturato il pensiero dall’inizio del XX secolo e che continuano a tesserne le trame.
Nella grande serie di dipinti che ha dedicato alla vita di Voltaire nel 1967-68 egli inventa in primo luogo una sorta di dialogo muto tra l’Italia e la Francia, come farà più tardi con la Ger­mania. A questo proposito, Tadini è il solo pittore italiano che abbia cercato di instaurare un tal dialogo con la storia intellettuale francese e con quella tedesca, ma anche con la cultura ingle­se e con quella irlandese. La sua cultura glielo consente, la sua conoscenza della letteratura gliene fornisce i temi e provoca, in lui, la nascita di una drammaturgia per immagini, come se la pittura fosse per lui l’ideale luogo di proiezione della sua visione della storia intellettuale e politica d’Europa, di cui i personaggi che dipinge sono gli attori simbolici.
In questa serie, Voltaire appare nel costume dell’epoca, spesso mascherato, con o senza cravat­ta rossa, una volta con Jean-Jacques Rousseau e spesso con un personaggio non identificato, privo di volto. Di tanto in tanto compare un palombaro, come se questo viaggio a ritroso nella storia francese non fosse altro che una forma di esplorazione sottomarina, alla ricerca di chissà quale tesoro perduto. Il secolo dei Lumi costituisce dunque la base prima delle sue ricerche. Siamo alla vigilia del 1968, il che fa di questa serie una sorta di premonizione al quadrato di ciò che sta per accadere. Nessuna enfasi, un’atmosfera fredda, un tratto preciso, in cui l’esprit de géométrie presiede alla messa in scena spaziale dei personaggi e allo sfondo. La “cosa men­tale”, qui, tira tutte le fila di questi dipinti verso figure emblematiche, che sono sempre costrui­te e ritagliate come manichini. Teatri d’idee, perfettamente dipinti, levigati, implacabilmente visibili e leggibili: molto più leggibili, pur essendo altrettanto distanziati rispetto al modello rea­le, di quelli del periodo metafisico di De Chirico. Sotto il pretesto di un’inchiesta sulla funzione dell’intellettuale (\’affaire Calas è evocato in uno dei dipinti della Vita di Voltaire), si tratta del­la pura e semplice messa in questione del potere – di ogni potere.
Due dipinti, intitolati L’uomo dell’organizzazione, entrambi datati 1968, ci faranno capire rapi­damente questo. Già delle lampadine elettriche comparivano nei dipinti dedicati a Voltaire, venuto così ad abitare nei nostri appartamenti del XX secolo. Ma l’”uomo dell’organizzazione”, che può essere tanto un uomo di partito che un Ministro o un semplice funzionario, è presenta­to come un individuo senza volto, in giacca e cravatta, assolutamente anonimo, in un ambiente arredato alla maniera degli uffici di oggi: come aveva fatto, prima della guerra, Victor Brauner, in un dipinto profetico: Lo strano caso di Monsieur K. Di questo potere, in quanto potenza astratta e forma vuota, Tadini destabilizza la figura, facendone quella di una marionetta che si può cacciare di scena con un calcio.Un’operazione di martellante ironia, che non può non far pensare a quella di certi dipinti, più o meno contemporanei, e di paragonabile carica ironica, di Eduardo Arroyo.
Nel 1969, nella serie Color & Co., di cui sembra far parte Le déjeuner sur l’herbe, dove il coper­to della colazione è posato su dell’erba racchiusa in una cornice, come se questa piccola por­zione di terra fosse un dipinto, e da cui è assente qualsiasi personaggio, è la pittura stessa a essere fatta oggetto della critica ironica di Tadini. Riducendola a dei vasetti, a delle vasche di colori, a un guanto macchiato e a degli occhiali, Tadini sottolinea la materialità della pittura: nessuna metafisica, là dentro. Oggetti, nient’altro che oggetti. Nel 1963, Daniel Pommereulle aveva proceduto in maniera ancor più radicale, riducendo la questione della pittura a un vero barattolo di vernice, irto di vere lame di rasoio – il che significava per lui, all’epoca, l’abbando­no della pittura. Ma Tadini non trae da questa critica della pittura la stessa conclusione che ne trae Pommereulle, perché, scrittore, oltre che pittore, sa di poter agire su due piani simultanei. Non solo lo sa, ma considera questo doppio ruolo come una libertà supplementare, non come un’alienazione mercantile. Per Tadini, la pittura è portatrice di senso, dunque è una forma atti­va del pensiero, e non potrebbe essere abbandonata, come specifica forma espressiva, senza mettere in pericolo la libertà stessa.
I dipinti che ha dedicato a Malevic nel 1971: la serie Paesaggio di Malevic, in cui contrappone le figure geometriche del pittore suprematista a forme tridimensionali, una poltrona, una maschera negra e un apparecchio telefonico, sottolineano un’enorme evidenza: la pittura e la sua storia si creano nel mondo reale, e niente affatto altrove, in ogni caso non nel cielo (imma­ginario) delle idee “pure”. Tadini procederà nello stesso modo nella serie successiva: Viaggio in Italia (1971), come pure in quella intitolata Archeologia (1972): messe in scena di oggetti nel­lo spazio pittorico. Tale onnipresenza degli oggetti in quegli anni, detti “di piombo”, ha valore di segno e di avvertimento, e fa forse eco a ciò che io stesso ho tentato nel 1965, usando il ter­mine objecteur a indicare i pittori che avevano abbandonato la rappresentazione degli oggetti per sostituire a questa la loro presentazione reale nello spazio reale, il che non dovrebbe essere confuso, come si è creduto, con una ri-appropriazione dei “ready made” di Duchamp.
La scelta di Tadini e la mia volevano dire, congiuntamente: “Attenzione, signore e signori, pri­ma di tutto non abbandoniamo il terreno del reale: noi abitiamo sulla terra ed è attraverso di noi, attraverso il nostro proprio corpo, i nostri propri occhi, che il mondo stesso si pensa e cam­bia, fino ai limiti entro i quali noi stessi possiamo pensare, prendendo contemporaneamente, in rapporto alle cose, la distanza infinita del pensiero medesimo”.
In effetti, in quel periodo della storia della pittura europea, non si poteva far di meglio. Ma io, osservatore sempre complice, non ho scritto niente per dirlo allora, e ho avuto un grande torto. Nessuno scrittore o critico d’arte francese l’ha fatto prima degli anni Ottanta. È vero che nessu­no, a quell’epoca, mi ha mai chiesto di scrivere sulla pittura di Tadini, e che io non avevo il minimo potere per imporlo, presso i galleristi o presso i giornali italiani. Mi sono accontentato di dargli la mia approvazione a voce, in caffè come il Jamaica, dove i pittori e gli scrittori si incontravano quasi ogni giorno a Milano, nel corso degli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta, e dove le discussioni, politiche, intellettuali e artistiche, raggiungevano il loro culmi­ne, e tutto restava tanto più problematico in quanto nel mondo intero stava attuandosi la confi­sca del mercato dell’arte moderna ad opera degli Stati Uniti.

Francesco Tadini

Emilio Tadini mostra Palazzo Reale, Magasins Réunis, 1973, 162×130 cm


Ma, insieme a Emilio Tadini, eravamo in pochi, all’epoca, a poter parlare tra noi, a Milano, senza trop­pi malintesi: con Recalcati, sì, con Adami, sì, ma poi solo con pochi altri, se ben ricordo. Era­vamo in numero ancor minore a concepire e a incoraggiare una pittura critica e figurativa: que­sta si vendeva assai male o non si vendeva affatto. Ora, i pittori, come ognuno sa, hanno asso­luto bisogno di vendere le loro tele per sopravvivere, farsi rispettare, credersi un pochino “rico­nosciuti” dalla società del loro tempo. Nella microsocietà dei pittori milanesi contestatori, che cercavano il successo nella sua interezza, ma non al prezzo di qualsiasi concessione, ho ben presto notato Tadini come un’eccezione, in quanto a discrezione e distacco – cortese – nei con­fronti degli altri pittori e di tutto il resto.
La sua condizione di scrittore gli concedeva certo maggiore indipendenza di quanta non ne avessero gli altri, ma lui non cercava di farlo sapere e ancor meno di imporlo come differenza essenziale. Tra i pittori milanesi, era il più discreto, ma anche il più silenzioso e il più attento. Ascoltava la storia, quella che si svolge quotidianamente, per strada, nei caffè e altrove, senza voler dare agli altri la più piccola lezione di morale a questo proposito. È questa presa di distan­za, mentale ed esistenziale, che si ritrova nei suoi dipinti, dove tutti i personaggi, fino alla fine degli anni Ottanta, si stagliano su fondi bianchi, a volte leggermente azzurrati, in una neutralità universale e assoluta: in pieno reale, in piena esteriorità – senza mai minimamente cadere nel­l’illustrazione aneddotica. Nella sua pittura si proietta se stessi dovunque e da nessuna parte, in una sorta di presente perpetuo. La drammaturgia per immagini di Tadini non è quella della tra­dizionale pittura di storia e volta le spalle a ogni propaganda, “comunista” o “anticomunista”. Pertanto, la “neutralità assoluta” dei suoi fondi bianchi non è quella dell’indifferenza, e si può parlare, a questo proposito, di una neutralità impegnata, che non è così paradossale come può sembrare. Avendo tratto una lezione radicale dal teatro di Brecht, Tadini concepisce i suoi dipin­ti, secondo la bella espressione di Arturo Carlo Quintavalle, il suo più grande interprete e com­mentatore italiano, come “macchine per pensare”. Lui pensa e ci dà da pensare, lasciandoci la libertà d’interpretare a modo nostro ciò che dipinge, al di fuori di tutti gli schemi conosciuti.
Nella serie intitolata Museo dell’uomo (1974), la scena si allarga, i personaggi, gli abiti e gli oggetti si moltiplicano, volano in tutte le direzioni, come in seguito a un’esplosione. È il perio­do più duro di quegli “anni di piombo”, in cui il terrorismo, manipolato dalla CIA e dal KGB, rischia di far ripiombare l’Italia nel fascismo o nella dittatura militare. Emilio Tadini – padre del curatore della mostra Francesco Tadini, n.d.r –  continua a dialo­gare mentalmente con gli scrittori francesi: Céline, per esempio, di cui legge con grande inte­resse gli ultimi romanzi e di cui cita il nome scrivendolo sotto un piede femminile sollevato, allo stesso modo in cui inscrive le parole “POUR PARLER FRANC” su un tavolo rosso. Tutto avviene, in questa serie, come se il “Museo dell’uomo” fosse diventato una discarica, in cui le cose perdono la loro funzione e il loro senso: il caos di una dispersione. Però tutto questo è espresso senza traccia di tristezza, né di nostalgia: come un fatto, di cui lui sembra limitarsi a fare l’irrefutabile constatazione. Ma è così sicuro? L’opera che dipinge l’anno seguente, Il desi­derio del pittore, resta enigmatica. L’artista vi si rappresenta mascherato: al posto dei suoi occhi, buchi di serratura, al posto del suo naso una maniglia. Vi è evocata una donna, come pure i colori e una penna. Il pittore cela lo scrittore, non è certo che la “donna” sia il solo oggetto, oscuro, del suo desiderio. Nel dipinto del 1976 intitolato Testo, in cui ha collocato una penna e un pennello sotto alcune macchie di colori, la sua doppia identità di pittore/scrittore è fortemente accentuata. È del tutto evidente che ciò maschera una crisi interiore, durante la quale Tadini sta resistendo alla tentazione di abbandonare la pittura a favore deila scrittura, o viceversa. Ebbene, quali che siano i mutamenti della sua vita, egli continuerà a resistere alla tentazione di sacrificare l’uno o l’altro dei suoi mezzi di espressione.
Nel dipinto che ha intitolato, in francese, La porte, nel 1978 (Duchamp, a questa data, è mor­to da dieci anni), Tadini ha inscritto il nome di Duchamp in lettere gotiche, al di sopra del buco di una serratura (l’occhio del pittore, se si fa credito al suo precedente autoritratto), mentre una mano tiene un pennello con la punta rivolta verso il basso. L’allusione è doppiamente chiara: all’ultima opera di Duchamp, Etant donnés, che egli ha realizzato segretamente nel corso degli ultimi vent’anni di vita, lasciando frattanto credere di aver abbandonato la pittura come pure ogni altra forma di espressione artistica e che si può vedere solo attraverso due buchi (di serra­tura) attraverso due porte, ma anche allusione ai legami, non meno segreti, che uniscono Duchamp alla cultura tedesca, e non solo al primo teorico dell’anarchia, Max Stirner, ma a tut­ta la filosofia a partire dall’epoca di Atheneum. Il dipinto, tanto più ambiguo quanto vuol pre­sentarsi semplice, costituisce secondo me il perno attorno al quale Emilio Tadini fa ruotare e conti­nuerà a far ruotare il suo pensiero fino agli anni Ottanta. Si tratta sempre, per lui, della stessa problematica: essere o non essere pittore, credere alla pittura o non crederle più? È la questio­ne che ci si pone ancora e alla quale Tadini fu il primo, con assai pochi altri, a rispondere in modo offensivamente positivo. Ma questa prima questione è legata a un’altra: quella dell’esistenza stessa del mondo reale e degli oggetti che lo abitano.
Si devono dipingere oggetti (sotto forma di rinnovata “natura morta”) o decidere di presentare, come nuova forma di espressione, gli oggetti stessi nello spazio, come avevano iniziato a fare gli Objecteurs sin dal 1965, ben prima che questo divenisse, poi, un sistema dominante? La mano rappresentata nel dipinto, con quel pennello rivolto verso il basso, sembra fornire una risposta negativa a quest’ultima domanda, ma è un’illusione. L’esternazione di questa proble­matica riguarda forse anche lo stesso Duchamp? Niente affatto: contrariamente a ciò che tutti credono e ripetono, Duchamp non era per niente ostile alla pittura, visitava le mostre dei suoi amici pittori, per esempio quelle di Rauschenberg e di Jasper Johns, di cui apprezzava l’intelli­genza, ciò che definiva “l’auto-intelligenza”, la capacità di comprendere se stessi, di compren­dere ciò che si sta facendo. Per verificarlo è sufficiente fare riferimento alla conversazione che ho avuto con lui a New York nel 1961, divenuta oggetto di un CD edito dal Centre Georges Pompidou. Tadini non ha nulla contro Duchamp, di cui non ha mai sottovalutato l’importanza, ma diffida, non senza ragioni, dalla strumentalizzazione che ne è stata fatta ad opera di artisti più o meno ignoranti riguardo a tutto ciò che Duchamp ha realizzato, al fine di giustificare, ai loro occhi, pressoché tutto, indifferentemente.
In questo senso, La porte del 1978, idea di pittore e di scrittore, è anche un quadro, ingegno­so, di “critica d’arte”. Una sorta di opera concettuale? Forse, benché il termine “concettuale” non convenga affatto al lavoro creativo di Emilio Tadini, dove i concetti sono sempre incarnati in imma­gini fisiche, sempre figurative.
In Le mani di Renoir (1979) è ancora la questione della necessità della pittura, e del suo abbandono, a essere posta. Il pittore, di cui non si vede la testa, allarga le dita in un movimen­to di sorpresa o di spavento, rischiando di far cadere il pennello dalla mano sinistra. Una goccia di rosso cade dal pennello, mentre un bizzarro aeroplanino, pure rosso, si libra in volo davanti a lui. Ed è il nome di “TITIANUS” a inscriversi nello spazio soprastante altri pennelli. La metafo­ra che muta la pittura in un “aeroplanino rosso” implica un rapporto aleatorio con la politica e con la rivoluzione. Tra Renoir e il Tiziano la questione del messaggio pittorico è tanto più enig­matica in quanto né il Tiziano né Renoir hanno trattato soggetti chiaramente politici. La sedia a rotelle su cui siede il pittore fa pensare che la questione della pittura si sia spostata e che non possa più porsi in termini esclusivamente estetici. Questo enigma apparente svela un’altra evi­denza: un pittore del XX secolo che si limitasse alla definizione di una nuova estetica, pratiche­rebbe in realtà una sorta di censura del senso. Perché il seguito, consegnato ai dipinti dell’an­no successivo, Le figure e le cose e Aporia, con quelle parole tracciate in scrittura ben leggibi­le sul fondo bianco, accanto a oggetti e personaggi diversi, mentre il pittore, piazzato al centro della sua “aporia”, sta dipingendo forme geometriche rosse, dimostra che, se il problema della sopravvivenza della pittura resta il soggetto principale di Emilio Tadini, esso non è tuttavia risolto. È ben lontano dall’esserlo.
Tale questione della necessità della pittura e del suo proseguimento resterà, sino ad oggi, al centro di tutte le preoccupazioni del pittore, che non parla semplicemente per se stesso e a suo proprio nome, ma a nome di tutti. Perché la storia continua, nel momento stesso in cui se ne proclama la “fine”, e tanto più inesorabilmente se tale fine è proclamata da quegli stessi che la pilotano, allo stesso modo in cui la “fine della pittura” è contemporaneamente proclamata da coloro che hanno diretto il suo mercato e non cessano di speculare sulle sue opere, ma evitan­do di valorizzare quelle che gettano una luce chiara ed esatta sulla storia in corso.
Nel corso degli anni Ottanta e Novanta, la storia non ha infatti cessato di moltiplicare, come tutti sanno, i suoi effetti devastanti: un aumento delle forze di polizia, diseguaglianze accen­tuate ovunque, varie rivolte sempre soffocate nel sangue, guerre neo-imperialiste, flussi migra­tori di persone e intere popolazioni, esili individuali e collettivi, decine di milioni di vittime, per cui il personaggio del “rifugiato” {Profugo, 1988) fa in fretta a diventare l’eroe archetipico cen­trale della drammaturgia tadiniana. Tutti i personaggi, tutti gli oggetti, piccoli o grandi, che figurano nei quadri dipinti da Emilio Tadini durante gli anni Ottanta sono in una situazione di accen­tuato squilibrio: sballottati, in caduta libera o precipitati fuori dal loro spazio, fino a quel dipin­to del 1988 in cui, per la prima volta e secondo una prassi che continuerà per tutti gli anni Novanta, il fondo bianco è eliminato, e lo spazio interamente occupato, fino al limite della saturazione totale, come se l’inferno di Bosch, ora completamente ripensato, non avesse più alcuna scappatoia nel vuoto.
L’atelier del pittore, tema di un trittico del 1993 {L’atelier’), diviene così il luogo di massima concentrazione del pittore su “tutto ciò che accade” (“il mondo”, secondo Wittgenstein) su tut­to ciò che gli ac-cade da ogni parte: un centro di ricerca e di creazione, una stanza universale di echi, un fondamentale laboratorio di analisi, il teatro faustiano della metamorfosi e della congiura. Per dire tutto: un luogo di resistenza individuale contro tutte le manipolazioni media- tiche del pensiero, contro tutti gli stereotipi che veicolano la menzogna assoluta di un liberali­smo considerato come il fine della fine della libertà. La creatività di Tadini non aveva mai rag­giunto, di quadro in quadro e di trittico in trittico, un tale grado d’intensità e di potenza pittori­che. Costruzioni di spazi incrociati, spazi che si urtano violentemente, spazi il più delle volte rovesciati, in cui la sinistra affonda verso la destra, la destra verso la sinistra e il basso verso l’alto, tutto qui si rivolta contro l’inquadramento, la forza di gravità e il limite, in un inno alla notte illuminata {Inno alla notte illuminata, 1991) in cui gli uomini cercano di fuggire verso l’u­scita – rivoluzione interiore contro il nichilismo planetario.
La sola conclusione che s’impone, è che uno scrittore italiano, Emilio Tadini, ha salvato la pit­tura ancorandola saldamente alla necessità del senso. Questo lucido scrittore è diventato, in questo vacillante esordio di millennio, uno dei rari pittori che, secondo regole strettamente individuali, abbiano realizzato un’opera pittorica degna di quel ruolo intellettuale e storico in mancanza del quale tutta la pittura cadrebbe a capofitto nella più suicida delle forme d’igno­ranza, e di stupidità.

Alain Jouffroy, 2001

(Traduzione dal francese di Silvia Pegoraro)

Grandi mostre a Milano

Il ‘900 di Emilio Tadini 

a cura di Francesco Tadini e Melina Scalise

inaugurazione mostra venerdì 23 febbraio 2018

Aperta al pubblico fino al 18 marzo.

In occasione dei dieci anni di attività della

Casa Museo Spazio Tadini

sito web: https://spaziotadini.com/

via Niccolò Jommelli 24, 20131, Milano

ORARI DI APERTURA della mostra: Mattino: solo su appuntamento
Pomeriggio: da mercoledì a sabato dalle 15.30 alle 19,30
domenica dalle 15 alle 18.30
Ingresso: 5 euro – bambini gratis- associati o abbonati (ingresso libero)- La casa Museo offre periodicamente anche ingressi liberi a tutti per alcuni eventi.

 

Per ulteriori informazioni:

Francesco Tadini – mail francescotadini61@gmail.com – mob. +39 366.26.32.523

Melina Scalise (presidente di Spazio Tadini) – mail ms@spaziotadini.it – mob +39 366.45.84.532

Francesco Tadini

Francesco Tadini è fondatore e direttore artistico di Spazio Tadini in via Jommelli 24 a Milano. Casa Museo e archivio delle opere di Emilio Tadini, sede di mostre ed eventi. Location.

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