GIANNI DOVA: l’artista visto dal pittore e scrittore Emilio Tadini

Gianni Dova, dettaglio dall’opera Composizione, 1971
GIANNI DOVA. L’artista visto dal pittore e scrittore Emilio Tadini. Allarme e incanto nella pittura di Dova. Non sono molti i pittori surrealisti, nella storia della pittura italiana di questo secolo. C’è, naturalmente, de Chirico. Ma de Chirico non è un pittore surrealista. De Chirico ha letteralmente inventato un modo di immaginare che prima di lui non esisteva, è un genio che ha aperto una dimensione nuova, possiamo dire, per tutta la cultura occidentale.

Gianni Dova nello studio di Rigoli, anni 80 – foto di Walter Mori
C’è Savinio. Ma Savinio ha abitato e lavorato a Parigi. Anche se è vero che la sua pittura, dai tardi anni 30, sembra a volte raccontarci una fiaba deliberatamente greve, in cui personaggi “romani” – a metà tra l’antico e moderno, decisamente anfibi – galleggiano lenti in un surreale che ha un po’ l’aria di un sogno sognato in qualche greve sonno dopo pranzo. Un perfetto surrealismo italiano, dati i tempi.
Altri pittori surrealisti, in Italia? Prampolini, per certi aspetti. E poi? Forse, tra gli anni 20 e i 40, è mancata in Italia quell’atmosfera culturale aperta, avventurosa, che si dava del tutto naturalmente a Parigi. E non ha agito la gran forza liberatoria dei libri, delle idee e degli stessi “proclami” di Breton. E non si è formata una autentica comunità di artisti venuti da luoghi e da esperienze tanto diversi tra loro.
Forse il vero grande pittore surrealista italiano è proprio Gianni Dova (Roma, 8 gennaio 1925 – Pisa, 14 ottobre 1991, n.d.r.). Ma va subito detto che Dova non si chiude nella stretta osservanza di quella iconografia surrealista tra il funereo e il decorativo di cui finiscono vittime tanti pittori in Francia, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Basta pensare al Dalì più tardo.
Del surrealismo, Dova prende proprio la capacità di liberare l’immaginazione. È come se lo spazio e il corpo e la cosa rivelassero alla sua vista non soltanto l’evidenza della loro fisicità ma anche l’evidenza del loro senso nascosto – del loro darsi al sogno.
È come se Dova tenesse presente una vera e propria “anatomia dei significati” per ogni spazio, per ogni corpo, per ogni cosa che entra nel suo immaginario, nella sua pittura.

Gianni Dova, Composizione, 1971
È una pittura “dal vero”, quella di Dova. Non è una battuta. Pensiamoci. Forse che il “vero” di uno spazio, di una persona, di una cosa consiste soltanto nella loro forma naturale – nella voce di un repertorio anagrafico? Forse che quando ci ricordiamo di qualcuno che abbiamo conosciuto ci limitiamo a rivedere mentalmente un ritratto da carta di identità?
Contano le espressioni, i sentimenti. Ma, questo è il punto: per Dova, quando si tratta di rappresentare uno spazio, un corpo, una cosa contano anche – e forse soprattutto – le forme custodite, lavorate, alterate, da una figura all’altra, nell’inconscio. Conta la diversità che si dà come effetto di qualcosa che si è sperimentata, ricordata, pensata, patita, temuta, immaginata, sognata. E anche rimossa, naturalmente.
Nella pittura di Dova, la forma dei personaggi è complessa: a immagine della loro storia segreta.
Ogni “lui” è anche un “io”, nei personaggi dipinti da Dova. La mano del pittore – e del disegnatore – si muove come un sismografo intento a registrare sommovimenti (lontani dalla coscienza) dentro l’intimità profonda dell’artista. E questo nello stesso preciso momento in cui quella mano, dipingendo o disegnando, si applica a “ritrarre” – o a inventare: a trovare – qualcosa che le è estranea.
Si danno incubi fastosi, a volte, nella pittura di Dova.
Lo vediamo in molti dipinti di Dova. Personaggi mostruosi – terribili, terrificanti, a volte addirittura deliberatamente ripugnanti – si mostrano e agiscono in paesaggi sognanti, cristallini, percorsi da luci iridescenti.
Capita molte volte, con Dova. Nello stesso dipinto, lo sentiamo, qualcosa ci allarma e qualcosa ci incanta.
Forse, la chiave per svelare almeno in parte il suo codice segreto – che Dova, come ogni grande pittore, lascia in vista nella sua pittura – forse quella chiave possiamo trovarla proprio nella ambiguità tra “allarme” e “incanto” che tanto spesso abbiamo l’impressione di sentire in azione sulla tela. E nel nostro sguardo, dentro di noi, quando guardiamo un suo quadro.
Qualcosa che è proprio del sogno, certo. Perché ogni sogno ci incanta allarmandoci. E ogni sogno ci allarma incantandoci. Ogni sogno ci fa sentire altrove e ci fa sentire a casa. Ogni sogno ci rivela una memoria che non sapevamo di avere. Ci fa partecipi di esperienze che nello stato di veglia mai avremmo pensato possibili. E ogni sogno ci fa accettare del tutto naturalmente l’inaccettabile. Quell’inaccettabile che ci appartiene.
Nella pittura di Dova non agisce soltanto qualcosa che ci ricorda da vicino la grande meccanica del sogno. È come se Dova volesse farci sentire il peso e la consistenza dei suoi “personaggi”. E come se volesse che noi toccassimo l’assoluto della loro materialità – prodotta dalla pittura.
Quello che possiamo anche chiamare il “fantasticare” di Dova non vuole abbandonare il mondo. È come se in questi personaggi ci si mostrasse l’ultimo stadio di una metamorfosi lunga, dolorosa, rabbiosa. Ma anche in quello stadio, qualcosa – membra, gesti – ci rimanda ogni volta, duramente e con violenza, all’umano.
Facciamoci una domanda. Per quali ragioni – per quali segni – gli esseri inverosimili dipinti da Dova ci riportano costantemente alla figura dell’uomo, ci fanno pensare al corpo dell’uomo?
Metamorfosi, nella pittura di Dova. E metamorfosi in atto.
Stanno allontanandosi, questi personaggi, dalla forma del corpo dell’uomo, o ci si stanno approssimando?
Nelle trasparenze e sotto le luci affascinanti di un mondo da fiaba va in scena, sorprendendoci, un dramma che ci riguarda, un dramma in cui anche noi siamo implicati.
La violenza. Lo scambio di ruolo – di corpo – tra vittima e carnefice. L’ambiguità, l’insensatezza, l’assurdo di una condizione quasi “bestiale” e nonostante tutto umana, troppo umana… Mutazioni…
Forse la parola “l’assurdo” può esserci utile. Va pensata.
Viene in mente Beckett.
Anche in Beckett va in scena, e con forza, una contraddizione. La contraddizione fra il comico – addirittura il clownesco – e il tragico.
Possiamo dire che nella pittura di Dova va in scena la contraddizione fra idillio fiabesco e tragico?
Vale la pena di ripeterlo. Ogni volta, noi siamo attirati e insediati nello spazio di un dipinto di Dova dal fascino di quella che potremmo chiamare “la materia del paesaggio”. Dalla sua iridescenza fiabesca, dal suo scintillare, dal suo rabbrividire nella luce. E, lì giunti, siamo turbati ogni volta dalla apparizione di esseri strani, a volte addirittura mostruosi, dall’irrompere di quasi-bestie, sgangherate, agitatissime. Intente a torturarsi. E, insieme, decisamente minacciose.
Nella bella natura fantasticata irrompe il male…
Ci sembra che soffrano, e terribilmente, questi personaggi minacciosi.
Nel sogno di certi quadri dipinti non molti anni prima della sua morte, quelle figure dolenti e feroci, date alla violenza della metamorfosi, scompaiono. E nella figura del paesaggio si mostra una natura felice.

Emilio Tadini e Gianni Dova, Milano, anni 70
Emilio Tadini su Gianni Dova
aprile 1997 – dalla monografia “Dova – il colore smaltato dalla fantasia“, edizioni Galleria Il Castello Milano, con una mostra a cura e con presentazione di Guido Conte.
Il catalogo / monografia su Gianni Dova è in consultazione – per i soci – presso via Jommelli 24 all’associazione culturale e Casa Museo Spazio Tadini, a Milano. I fondatori Francesco Tadini e Melina Scalise saranno lieti di ospitarvi – e di offrirvi un rinfresco – presso le grandi sale dell’ex tipografia storica. Leggi anche il blog / magazine Milano Arte Expo, realizzato e aggiornato da Spazio Tadini e dai suoi collaboratori.