Pablo Picasso Les Demoiselles d’Avignon – capolavori dell’arte analizzati da Tadini

Pablo Picasso Les Demoiselles d’Avignon – analisi di Tadini
Pablo Picasso Les Demoiselles d’Avignon – capolavori dell’arte visti da Tadini con il libro L’occhio della pittura (edito da Garzanti nel 1995). Terza parte dell’analisi di Le Bordel philosophique (clicca qui -> e leggi le altre parti.) Les Demoiselles d’Avignon di Picasso ci si presenta a prima vista come una scena teatrale. Anche la luce, sembra teatrale. Una luce forte, compatta, una luce simile a quella che investe il palcoscenico venendo da riflettori disposti in fondo alla platea.
La prima donna a sinistra sembra stia sollevando un sipario con la mano sinistra. Lo stesso gesto che faceva lo studente, in un disegno preparatorio.
I personaggi che recitano sulla scena di un teatro si danno in funzione del pubblico che li guarda che li ascolta. Ma nello stesso tempo – secondo la tradizione teatrale più diffusa – essi fingono un’esistenza indipendente da quel pubblico. Come se quello che stanno facendo e dicendo “fosse la realtà”. Come se il pubblico stesse spiando, non visto dai personaggi sulla scena, la realtà di un momento della loro vita.

Tadini
“Non guardate in macchina!” Raccomandano i registi alle comparse durante la ripresa di un film. Che vuol dire: “Se guardate in macchina, è come se guardaste lo spettatore. E, in questo modo, lo spettatore conoscerà la verità – e cioè che questa non è vita ma soltanto finzione”. A teatro è lo stesso. Se si vuole che lo spettatore guardi la scena come si guarda la vita, non bisogna che l’attore lo guardi.
È come se guardare un altro negli occhi – quell’unico sguardo virtuale prodotto dall’affrontarsi e dal congiungersi di due sguardi diversi – escludesse fatalmente ogni finzione.
Forse è per questa ragione che ci sembra di sentire la presenza di qualcosa di conturbante – la presenza di qualcosa che ha a che fare addirittura con il “sacro” – ogni volta che i nostri occhi si fissano negli occhi di un altro. Una sensazione che definire “di prossimità” ci sembra del tutto insufficiente. Una specie di momento della verità. Il momento della verità per eccellenza.
È la verità di noi stessi che noi vediamo nella faccia, negli occhi dell’altro? O, per meglio dire, è finalmente la verità – in quanto etica – del mondo?
“Guardami negli occhi!” si dice a qualcuno che si pensa abbia mentito – per chiamarlo una specie di piccolo Giudizio di Dio. Ma è come se si dicesse: “fammi guardare i tuoi occhi!”. Una minuscola manifestazione di potere. Proprio come se a chi è guardato negli occhi fosse impossibile mentire.
Ma il guardare l’uno negli occhi dell’altro è un’altra cosa. È l’abbandono più assoluto – nella più assoluta nudità. Come se il guardare l’uno negli occhi dell’altro spalancasse a ogni sguardo la vera vista di una verità che coinvolge e insieme trascende l’uno e l’altro.
Sulla scena de Les Demoiselles d’Avignon, due donne guardano lo spettatore – ci guardano. Lo spazio più consueto del teatro è superato.
Ma forse vale la pena di ricordare che – in una complicazione molto espressiva dello spazio teatrale – si danno tragedie, drammi e commedie in cui uno o più attori dialogano con gli spettatori. Guardandoli, naturalmente.
Senza contare naturalmente la funzione del coro nella tragedia greca. Quel coro che, come gli spettatori, assiste alla scena teatrale. Ma che, a differenza degli spettatori, ne vede e ne conosce il senso – con tutte le sue oscurità. Quel coro che sembra avere lo stesso valore e la stessa funzione che ha la figura – tra la cosa lo sguardo.

Les Demoiselles d’Avignon, Pablo Picasso, 1907
Ne Les Demoiselles d’Avignon di Picasso, lo spazio del teatro, appena evocato, è superato – senza naturalmente che il ricordo di quello spazio, evocato in principio, sia definitivamente escluso.
Lo spazio del teatro è superato non soltanto dagli sguardi delle due donne che ci guardano. Lo spazio “sospeso” del teatro è superato anche dal gesto della donna che, a destra in alto, sembra guardare intensamente in scena. Anzi, che sembra colta nell’atto di irrompere in scena.
Ma quello spazio, appena evocato, del teatro, è superato anche dalla donna accosciata, in basso a destra. Rivolta verso le due donne al centro, la sua testa mostruosamente torta guarda noi. È come se volesse spiare sulle nostre facce l’effetto prodotto in noi dalla vista di quelle due donne che, al centro della scena, guardandoci, ci mostrano – ci offrono – i loro corpi.
Anche se è nuda come tutte le altre donne, anche se è la più nuda di tutte, la donna accosciata potremmo anche assimilarla – per un momento – alla figura della tenutaria di questo bordello filosofico di Picasso. Come tale, sarebbe una figura sospesa, una figura che non appartiene in tutto e per tutto né al mondo delle prostitute né al mondo dei clienti. Una figura che, in quello che si chiamava “il tempio del sesso”, introduce un rito da cui è esclusa.
Continuiamo a immaginare per un po’ che la donna accosciata sia la tenutaria della bordello, e quindi una figura intermediaria. Paradossalmente – la tenutaria di un bordello ne è la padrona – la sua sarebbe la situazione di un personaggio estraneo, se non addirittura subalterno. Ma lei sembra uscire con violenza da questa condizione. Con quello sguardo fissato sulla maschera che tiene luogo della faccia sulle sue spalle.
Se le due donne al centro ci guardano e ci si offrono con una espressione che sembra quasi di malinconica innocenza, attraverso la sua maschera la donna accosciata più che guardarci sembra, per un momento, scrutarci – giudicarci.
La torsione inverosimile della testa della donna accosciata le dà un’aria ambigua, mostruosa. Ma anche la sua espressione è ambigua. Soprappensiero, o minacciosa?
La sua espressione, ingigantita per così dire dalla fissità della maschera, potrebbe sembrare anche l’espressione di qualcuno che vede davanti a sé una scena paurosa – terribile. Come se, alle nostre spalle, lei stesse vedendo il manifestarsi e l’incombere di un pericolo di cui noi non ci siamo ancora resi conto. Viene voglia di guardarsi indietro…
Per una ambiguità senza dubbio deliberata e sapientemente costruita (basta valutare la posizione di quel braccio con la mano che regge la testa-maschera) la torsione di questa testa-maschera è tale che, per un attimo, ci sembra quasi più logico vedere la donna accosciata come se ci fronteggiasse – come se stesse mostrandoci non la sua schiena ma il suo petto, il suo ventre.
Per un attimo, guidati da questa falsa pista, ci sorprendiamo a constatare che la donna accosciata non ha sesso. Una evidenza clamorosa, conturbante. Poi mettiamo da parte questa specie di illusione ottica e torniamo a vedere la donna accosciata in atto di mostrarci la schiena. Ma a turbarci, a questo punto, e naturalmente ancora quella sua testa-maschera – tòrta al punto da far pensare a un collo spezzato.
E se questa dipinta da Picasso con Les Demoiselles d’Avignon fosse davvero una maschera? Se la donna accosciata stesse guardando le due donne al centro e intanto guardasse noi attraverso una maschera legata sulla nuca? E se quella mano assurda che la sostiene facesse parte della maschera?
Forse la funzione primaria delle ambiguità formali e simboliche di cui Les Demoiselles d’Avignon è disseminato è quella di produrre ambiguità corrispondenti – addirittura speculari – nella nostra vista, nella nostra interpretazione, nella nostra immaginazione. Una macchina molto efficiente.
La donna accosciata è collocata in primo piano. È come se stesse guardando le due donne al centro e, di colpo, avesse sentito il bisogno di guardare i clienti del bordello, gli spettatori, noi. Forse la torsione della sua testa-maschera ha soprattutto la funzione di enfatizzare il senso di quel gesto – di quel tenere la testa voltata per guardare qualcosa di importante, di conturbante…
Per un momento può sembrarci anche un’espressione di paura, quella che vediamo su questa testa-maschera. Ma questa impressione è contraddetta dal gesto della mano che sorregge la testa. È un gesto che fa pensare non a una posizione che sia stata assunta improvvisamente, ma piuttosto a una posizione che duri da un po’, che si stia prolungando.
Anche la mano che sorregge la testa-maschera è mostruosamente deformata. Ha la forma del cesto che giocatori di pelota basca si legano all’avambraccio per raccogliere la palla e per rilanciarla.
Se la donna accosciata è collocata in primo piano, in primissimo piano è collocato il tavolo con la frutta. Il tavolo è ribaltato – come se fosse messo in verticale.
Il ribaltamento di questo oggetto sembra obbedire alle medesime leggi che nella sintassi delle fiabe regolano non soltanto la disposizione di certe relazioni dei personaggi nello spazio e nel tempo, ma anche la disposizione di certi sentimenti, di certi atti, di certi gesti. A che scopo? Si potrebbe rispondere: allo scopo semplicemente di soddisfare, prima di tutto, quelle che potremmo chiamare le esigenze primarie della evidenza narrativa.
La fiaba è ansiosa quanto chi l’ascolta. Che vuole anche dire: la fiaba è fatta a immagine e somiglianza del desiderio di colui al quale la fiaba raccontata.
Il grande narratore di fiabe non fa che ascoltare la fiaba. Ne prende di cose, dalla fiaba… Quasi più di quante non gliene dia. Allo stesso modo il grande pittore non fa che guardare il dipinto. Ne prende, di cose, dal dipinto… Quasi più di quante non gliene dia.
Forse se stessimo più attenti al nostro desiderio, se ci rendessimo conto della intensità di quella specie di luce mandata dal nostro desiderio, ci sarebbe più facile capire il senso di certe fiabe, di certi quadri – che ci sembrano oscuri.
È come se per questa pittura di Picasso il chiaroscuro, lo scorcio, il sistema delle ombre portate – oltre che, naturalmente, le stesse regole rigorose della prospettiva e delle proporzioni – tutto fosse sostanzialmente escluso per non correre il rischio che qualcosa ne sia nascosta, che qualche evidenza ne sia offuscata. Allo stesso modo in cui un percorso tortuoso sembra nascondere ed offuscare il punto di arrivo.
Certe deformazioni, certi ribaltamenti, certe “assurdità” che sono in questa pittura non turbano noi – non turbano cioè qualche “noi” assoluto, immobile e immodificabile. E non turbano neanche, in fondo, la nostra capacità di vedere desiderando. Turbano certe abitudini del nostro sguardo. Del tutto occasionalmente, potremmo dire.
Per chi è questa frutta? Picasso dice a Daniel-Henry Kahnweiler di avere anche pensato, in un primo momento, di dipingere – con Les Demoiselles d’Avignon – un gruppo di donne intente a mangiare. Una specie di Grande Bouffe. O qualcosa alla Rabelais. Sesso, cibo: una specie di “troppo pieno” – tragicomico…
Forse quella frutta è per chi guarda. Per i clienti del bordello filosofico? No, per noi. Deve essere proprio per noi – dipinta com’è, da Pablo Picasso, così in fretta…
Come se il pittore, dopo averla dipinta così come adesso la vediamo, dicesse: “avete capito cos’è? Frutta, benissimo. Allora andiamo avanti”. E questo non per risparmiare – lui, il pittore – un po’ di fatica, un po’ di quella fatica meccanica che ci sarebbe voluta per “rifinire” la figura della frutta sul tavolo. Ma per fare in modo che la nostra capacità di percepire e la nostra capacità di pensare possano continuare a darsi – a stare – dentro la rapidità e l’intensità di quel loro primissimo, immediato, sintetico, atto di conoscere e riconoscere. Talmente rapido e intenso da sembrare un atto di volontà. Talmente rapido e intenso da coinvolgerla davvero, la nostra volontà: nel conoscere e riconoscere queste ed altre figure sommarie.
(…)
CONTINUA > pubblicheremo a breve la quarta parte
Emilio Tadini
analisi di Les Demoiselles d’Avignon
di Pablo Picasso
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L’occhio della pittura – il libro sull’arte contemporanea di Emilio Tadini da cui è tratto il saggio sul capolavoro di Picasso Les Demoiselles d’Avignon / Le Bordel philosophique – è disponibile anche presso l’Assoziazione Culturale e Casa Museo Spazio Tadini in via Jommelli 24 a Milano. Per la direzione di Francesco Tadini e Melina Scalise – anche fondatori – i due piani di sale espositive sono sede – una ex tipografia – anche dell’Archivio Generale delle opere dell’artista (sia pittoriche che letterarie e giornalistiche), parte delle Case Museo di Milano Storie Milanesi e di Anime Nascoste, rete di spazi culturali milanesi.

Francesco Tadini – foto di Spazio Tadini