Pala di Brera di Piero della Francesca: Pinacoteca di Brera
Pala di Brera – o Pala Montefeltro – di Piero della Francesca alla Pinacoteca di Brera di Milano. Articolo di Emilio Tadini (dal numero speciale dell’ottobre 2002 della rivista Città Milano a lui dedicato dopo la sua scomparsa).
Milano città dei musei: La Pala di Brera – L’uovo di Piero, di Emilio Tadini

Pala di Brera – o Pala Montefeltro – di Piero della Francesca alla Pinacoteca di Brera di Milano. Articolo di Emilio Tadini
Regnano, sovrane, nel mondo di questo dipinto, la luce e la prospettiva. (La luce che nella prospettiva “si incarna”…)
La luce e la prospettiva dispongono di ogni cosa. Dell’architettura, del committente – Federico da Montefeltro, inginocchiato in primo piano – della Madonna con il Bambino, al centro, e di tutto il seguito, i martiri, i santi, i quattro angeli sullo sfondo.
Dire che la luce e la prospettiva, nella Pala di Brera, dispongono di tutto e di tutti vuol dire anche che ogni cosa dipende da loro, che ogni cosa è in loro dominio.
Potremmo dire: la luce e la prospettiva, qui, sembrano quasi la manifestazione concreta di uno Spirito che suscita il mondo pensandolo nell’assoluto del proprio ordine.
È come se l’uomo, davanti alla scena che gli si apre davanti, nel gioco che si mette in atto tra l’effusione irresistibile della luce e il delinearsi di uno stabile ordine prospettico, fosse messo nella condizione di assistere – attraverso il proprio sguardo – a una smagliante, sostanziale, definitiva manifestazione simbolica dell’Assoluto, dello Spirito.
I particolari della Pala di Brera sono ricchissimi, fastosi. Basta osservare i monili nei capelli e sui vestiti dei quattro angeli sullo sfondo, il vestito della Madonna, il tappeto, l’armatura di Federico da Montefeltro. Ma è come se quella luce forte, nitida, non consentisse a nessuno dei particolari di mettersi in evidenza, di figurare, per così dire, smodatamente.
Quella luce regge e contiene ogni cosa – ogni apparenza, ogni sostanza. La regge, e la contiene, nel proprio sovrano equilibrio. La dà alla vita. Ma è anche come se la tenesse in sua proprietà.
La prospettiva sembra collocare l’architettura
e i personaggi in un vero e proprio ordine gerarchico di valori. E lo spazio è definito da quell’ordine – da quei valori.
I personaggi della Pala di Brera sono immobili, in posa. Viene in mente Longhi, che per i personaggi dipinti da Piero della Francesca parlava di “umanità colonnare”. Progettati, costruiti – o meglio, collocati in un sistema costruttivo.
Ogni personaggio sostiene il proprio ruolo. Cede il suo corpo, per così dire, alla funzione simbolica che gli spetta.
La prospettiva, tanto studiata e teorizzata da Piero, funziona qui come un sistema d’ordine, come una vera e propria “visione” del mondo. Ed è come se l’occhio, vedendo, guardando, giudicasse.
Il “posto” che ogni cosa, ogni persona assume in questa macchina prospettica non può che essere il posto “giusto”. (Provare a pensare la prospettiva come dispositivo etico…)
Il potere assoluto della divinità, qui, si manifesta raffigurandosi materialmente nel piccolo corpo del Figlio. E il Figlio – il Bambino – dorme abbandonato in grembo alla madre.
Per un momento, potrebbe anche sembrarci che, nella figura del piccolo corpo addormentato, il centro assoluto di questa immota, sontuosa cerimonia, si manifesti come assenza, come irraggiungibilità. Addirittura come figura dell’indifferenza. Viene da pensare all’aria pensosa, assorta, grave, che hanno tubi i personaggi.
Davanti al vuoto dell’abside, questi corpi formano una specie di gruppo schierato. Se fosse così, colui che lo passa in rassegna è lo sguardo dello spettatore – nella immensità del tempo che si apre davanti al dipinto.
Fino a oggi, fino a domani. Quell’unico sguardo di mille occhi diversi – intenti a guardare, chiamati in causa…
Tutti questi personaggi guardano nel vuoto.
Sono tutti molto seri. Non si guardano tra loro.
Quasi nessuno di loro ci guarda.
I quattro angeli sul fondo sono completamente diversi dai santi, dai martiri. Sembrano addirittura di un’altra “etnia”. Stranieri.
Intanto, i quattro angeli sono vestiti in modo molto più ricco, più sontuoso. E poi. le loro facce non mostrano tracce di sentimenti. È forse perché Piero vuole che in quell’assenza di “espressione” noi si legga l’intensità assolutamente raccolta in se stessa di un essere che, è vero, apparendo si dà al mondo – ma i cui occhi hanno visto Dio?
Soltanto i due angeli che stanno alla sinistra della Madonna guardano noi che guardiamo il quadro. Sembrano interrogarci. E prima di tutto sembrano esigere con calma, quasi con freddezza, la nostra convocazione nella scena – nel cuore del senso di questa scena.
Che cosa vede (in noi, poiché è noi che sta guardando) l’angelo con la giubba verde? Quel suo sguardo limpido – intento, ma senza emozioni – quasi ci intimidisce. Quasi ci spaventa. Non perché sembri che voglia rimproverarci per qualcosa, ma piuttosto perché ha l’aria di scrutarci tenendoci a distanza.
Se osserviamo ancora l’espressione di tutti i personaggi schierati a fianco della Madonna, e l’espressione dello stesso committente, può anche sembrarci che il dipinto metta in scena una meditazione – una specie di cerimonia di meditazione.
Non sembrano intenti a meditare su qualcosa di indicibile, di misterioso, e, insieme, di essenziale, questi personaggi?
Una veglia intorno a un Dio Bambino addormentato – o una veglia intorno a un Dio che, comunque, accettando di incarnarsi ha accettato un destino – e dunque si è votato alla morte?
Il Bambino dorme. Dopo questi pensieri, adesso, per un attimo, davvero, il suo sonno potrebbe sembrarci simile a una morte. Il filo che ha al collo è rosso, come il sangue.
A picco sopra la testa della Madonna, pende l’uovo di struzzo. Lo si appendeva, nell’abside di certe chiese.
E uno struzzo figurava nello stemma dei Montefeltro.
Ma non basta.
Se il corpo del bambino addormentato (come morto: come il morto ammazzato che inevitabilmente dovrà diventare alla fine della vita terrena cui è destinato) se questo piccolo corpo del Bambino è il centro terribilmente materiale del grande dipinto, questo uovo appeso ne sembra il centro immateriale.
È come se il piccolo universo qui raffigurato girasse, vertiginosamente immobile, intorno a quell’uovo.
L’uovo è una figura geometrica “quasi” perfetta. Una sfera: ma, potremmo dire, una sfera lavorata dalla gravità.
L’uovo è simbolo di vita, emblema di ogni cosmologia. Custodia di qualche corruzione, di qualche fecondità…
Dà un centro, questo uovo, a tutto il sistema della luce.
Dà un centro a tutto il sistema della prospettiva.
Come la piccola parola “Dio” indica qualcosa di immenso, così, qui, questa piccola figura fonda nell’aria l’intero apparato simbolico che si mostra giganteggiando in questo dipinto.
Adesso, proviamo ad abbassare lo sguardo. Dal cielo entro il quale questo uovo irraggia perfetto e, nonostante tutto, così lontano, scendiamo a riguardare i personaggi.
Non sembra proprio che siano dati – tutti – a qualche turbamento – a qualche melanconia inconsolabile?
Emilio Tadini
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Leggi anche il testo di Silvia Pegoraro, curatrice dell’antologica di Emilio Tadini a Palazzo Reale di Milano.
L’articolo di Emilio Tadini, come i numeri della rivista Città Milano sono conservati presso l’archivio generale delle opere pittoriche e letterarie dell’artista: la Casa Museo Spazio Tadini di via Niccolò Jommelli 24, fondato e diretto da Francesco Tadini e Melina Scalise. Francesco Tadini è anche fondatore del club fotografico milanese PhotoMilano: ecco la sua pagina sul sito ufficiale.